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la testa e piantati i suoi occhi infiammati di collera in viso al marito.
— Voi dite che io l’ho consigliato? — gridò, mozzandogli le parole. — Sì, è vero, perchè voi eravato stato ingiusto con lui, e villano. Lo avete confessato or ora voi stesso; egli vi ha chiesto scusa, infatti, delle impertinenze che gli avevate dette voi. E mi avvedo ancora, dalle vostre parole, che gli usci avevano orecchi, quel giorno. Benissimo, signor conte; è qui la prova più chiara di ciò che io sapevo, e che non mi occorre più di farvi confessare. A noi, ora; non contento di tradire, insultate ancora la donna che ha commesso un error solo in tutta la sua vita, quello di accettare il vostro nome e di stimarsene orgogliosa. Povero orgoglio, come è presto caduto! Ed ora non più; andate ed aspettate. —
Un gesto imperioso seguiva, dando fine al discorso e commiato al conte Spilamberti. Ma egli non si mosse. Quelle parole di minaccia lo inasprivano anche più, pungendolo con tutti gli stimoli della curiosità insoddisfatta.
— Che cosa intendereste di fare? — diss’egli.
— Quello che è nel mio diritto; andate.
— No, voglio sapere. Perdio! — soggiunse il conte, afferrandole un braccio. — Sono vostro marito, e vi giuro....
— Badate! — gridò ella, divincolandosi. — Voi mi spezzerete come una canna, ma non mi piegherete; e finirete per giunta in corte d’assise. Volete dunque che io chiami al soccorso? Lo farò, se non mi lasciate subito, se non vi togliete di qui. —
E raccoglieva le forze, per gittare uno strido. Egli, o fosse paura o vergogna di sè, lasciò il braccio di sua moglie e se ne andò fremebondo. Fulvia diede a lui un’occhiata sdegnosa, poi guardò il suo braccio su cui rosseggiava l’impronta della stretta brutale, si scosse, andò verso la scala e discese rapidamente nel salottino.
Il signor Demetrio era presso il canapè, donde allora allora si era levato, con gli occhi tuttavia insonnoliti.