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vava le mani, come Pilato. Non volle imitarlo sua figlia, quando i lagni si rivolsero a lei. Delle mormorazioni, per verità, non voleva tener conto se non per metterci fine; e il modo di metterci fine era quello di vedere che cosa ci fosse di autentico in quella storia della gratificazione per lodevoli servizi, che veramente sarebbe stata una parzialità, una ingiustizia, destinata a seminar la discordia tra i commessi del Bottegone.
— Che c’è di vero? — chiese ella un giorno al marito, dopo avergli esposte le voci che correvano in proposito.
Il conte Attilio si era inalberato, credendo di uscirne coll’audacia. Ma ella aveva insistito, ed egli doveva accettar battaglia.
— Sono infamie; — gridò. — Non c’è niente di vero. Per caso, sareste gelosa? —
Non era quello il miglior modo di vincer sua moglie. La contessa si sentì più offesa di quella domanda grossolana, che non fosse stata per tutte le ciarle a lei riportate intorno agli atti e gesti del suo signore e padrone.
— Attilio, — rispose ella, mettendosi sul grave, — io non v’intendo. Per vostra norma, non soffro di questo male. Neanche a Roma ne ho sofferto, vi ricordate? —
L’accenno rendeva mal suono, e il conte Attilio si stizzì grandemente: ruotò gli occhi, digrignò i denti, sbuffò, come un forsennato.
— A Roma! — gridò egli. — Che Roma? Che sciocchezze son queste? Di Roma, come di qui, non sapete niente, perchè non c’è niente.
— Di qui vedremo; — rispose Fulvia, inflessibile. — Di Roma so tutto. Vi maraviglia che io abbia taciuto, non è vero? Anch’io me ne maravigliai sulle prime. Ma forse il non aver parlato allora fu effetto naturale del grande stupore che mi aveva preso, e che ebbi tempo a mutare, ragionandoci sopra, in un prudente riserbo; prudente per voi, per la quiete della casa, povera casa a mala pena edificata e già presso a crollare; prudente per il timore dello scandalo, di ciò che avrebbe pensato mio padre, di ciò che