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— E tu.... — disse Fulvia, turbandosi, — e tu gli hai detto?...

— No, non gliel ho detto; ma lo ha capito egualmente. Sfido io, se non doveva capire, dopo che io stesso gli avevo manifestato il mio desiderio di averlo per genero! Ma se non ha rinnegata la pazienza allora, che si trattava della sua felicità, perchè non usarne oggi, che si trattava della mia quiete? Non poteva mandar giù qualche amaro boccone, come ne ho mandati giù io, e più amari dei suoi? S’ha egli da andar fuori dei gangheri, per quelle cose che non c’è dato cambiare? Finalmente, di che si trattava? Di qualche parola poco misurata, di qualche osservazione poco opportuna; sciocchezze, a ben guardare, piccoli guai, che si sarebbero aggiustati per via. Perchè non prendere esempio da me? Ne ho avuta tanta io, di quella virtù necessaria!

— Povero babbo! — esclamò Fulvia, mettendogli una mano sulla spalla. — E son io la colpa di tutto.

— Non di tutto, non di tutto; — riprese il vecchio; — ma d’una parte, ammettiamolo pure. Ed anche, a confessarlo qui, ora, che nessuno ci sente, l’abbiamo fatta grossa, tra te e me, l’abbiamo fatta grossa.

— Non dire, babbo, non dire. Il tuo genero si è molto cambiato, non vedi? Vuol lavorare, e ci si è messo sul serio. Accettiamo questa condizione di cose, del resto, e non istiamo a pentircene; sarebbe un riconoscere che ne abbiamo rimorso. Se abbiamo fatto male in qualche cosa, l’espiazione pur troppo non manca.

— Ah! — gridò il vecchio, voltandosi a guardare la sua figliuola nel bianco degli occhi. — Così la vedi? Tu dunque ammetti....

— Che ho un dovere da compiere, babbo; — interruppe Fulvia, sollecita. — Il conte Spilamberti è il padre dei miei figli. Non sai tu quanto diano di forza i figli? tu che ne hai avuto tanta per amor mio? Ora quel che è fatto è fatto; non ritorniamo più sul passato. Siamo in due, che dobbiamo consolarti, ognuno a modo