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voi altri, se non volete farmi mangiare il pane a tradimento. —
Qualche volta il signor conte sospirava le sue grandezze perdute; ma non troppo profondamente, e mescolando un po’ di celia all’amaro della sua condizione mutata.
— In verità, — diceva il signor Demetrio, — non so come ti adatti a questa vita.
— Per forza, san Marco! — rispondeva quell’altro. — Ed è gran fortuna, nella disgrazia, quel che mi tocca. Non a tutti i fannulloni miei pari è dato di trovare un babbo come te. Conveniamo, per altro, che in certe cose la fortuna avrebbe potuto usarmi gualche riguardo maggiore. Vedi, ad esempio, i miei beni, come sono stati venduti a stracciamercato. Valevano il triplo, a dir poco. Il mio castello di San Cesario!... Quello, poi, è per me uno schianto di cuore. E bisogna vedere come lo fanno figurare! Mi scrive un amico da Modena, che è diventato un gioiello, in mano al suo nuovo proprietario.
— E non si sa chi sia?
— Un notaio, dicono; ma certo non ha comprato per sè. Si può immaginare un notaio che vuol fare il castellano? Comunque, benedetto lui, che ama quelle povere pietre e mostra di pregiarle per quel che valgono. Un giorno o l’altro, dopo averci spese diecimila lire oltre il prezzo d’acquisto, venderà la rocca a qualche inglese, per un centinaio di mila lire.... Basta, non ci pensiamo, e sia pure quel che il destino ha voluto. —
Con questa filosofia il signor conte si metteva al lavoro. E le domande di ragguagli fioccavano ogni giorno, esercitavano la pazienza di Virginio, che sempre più si mostrava premuroso e sommesso, come un inferiore verso il suo superiore. Un altro al suo posto avrebbe fatto sentire in qualche modo i suoi diritti, non pure acquistati tacitamente col tempo, ma riconosciuti formalmente dal vero suo superiore, che era il signor Demetrio Bertòla. Ma, per far questo, Virginio non aveva la necessaria mediocrità di