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Placidia, dal canto suo, aveva levati gli occhi attoniti al soffitto, menre le mani si giungevano istintivamente in atto d’invocazione alle potenze celesti.

Ma perchè tanta repugnanza? Messo alle strette, tra molte lagrime e singhiozzi, quel povero piccino lo aveva pur detto, il perchè. La chiesa era fredda: la sagrestia, col suo odore di muffa, gli faceva male al cuore. Lo sentiva bene, lui, che il ministero di prete non sarebbe mai stato il fatto suo: se n’era persuaso le poche volte che aveva dovuto provarsi a servire la messa allo zio, senza mai venirne a capo, non intendendo una parola di quel latino che gli avevano fatto imparare a memoria, non indovinando mai il momento giusto di andare a prendere le ampolline, nè quello di levare il messale da un lato della mensa eucaristica, per portarlo dall’altra. E quella tonaca nera, poi! non si sarebbe mai adattato a portarla, no, mai e poi mai; e meno ancora a trovarsi in un collegio, tra tante tonache nere, tra tante persone fredde, che ad ogni ora del giorno borbottassero parole latine. Non ne sapeva ancor nulla, non avendo mai visto un seminario; ma aveva sentito dalla signora Placidia che quello era un luogo dove si facevano i preti. E forse istintiviaimente, avendo un’idea delle prime operazioni aritmetiche, moltiplicava lo zio prete per dieci, per venti, per cinquanta, per cento. Dio che processione!

— Ma è il diavolo! — esclamava la signora Placidia. — È il diavolo che gli ha scaldata la testa. —

Don Virginio e la sua sinodale fantesca erano già tornati parecchie volte all’assalto, sempre col medesimo frutto. La signora Placidia ansimava; don Virginio usciva a dirittura dei gangheri. Oramai, non c’era più speranza di vincere la resistenza di quel cosettino tant’alto. Avevano perfino tentato il mezzo di fargli leggere nella Storia Sacra il capitolo della vocazione di Abramo, e di commentarglielo: ma invano; quel piccolo refrattario singhiozzava, piangeva, e non si lascia-