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palazzi, ma spaziose abbastanza, e la quantità teneva luogo dell’ampiezza, imperocchè di due quartierini, posti al medesimo piano, se n’era fatto un solo, e ci stava ad agio in una fila di salotti, dove, alle conversazioni del lunedì, o a qualche festa da ballo, conveniva la miglior compagnia, vo’ dire la più ricca e la più sfoggiata di Genova.

Oltre la sala da ballo, i salotti da conversazione e la credenza, c’erano le camere da giuoco sacre al goffo tradizionale, giuoco genovese pretto sputato, contro cui si sono rintuzzate le armi della moda, tiranna ordinatrice di whist e di lansquenet, come di crinolini rigonfi e di vesti sfiancate, di spalle ignude e di capigliature tolte a prestanza. Là, il signor Cesare Perrotti, perdendo quasi sempre di bei danari, s’era guadagnato il nome di magnifico, egli che usava lesinare la mattina sui venti centesimi in piazza de’ Banchi, egli che non aveva mai reso servizio ad un amico in angustia.

Del signor Cesare Perrotti vo’ appunto raccontarvene una che vi darà un giusto concetto dell’uomo. Un giorno fu da lui un tale, suo conoscente e degnissima persona, per chiedergli un migliaio di lire ad imprestito. Costui non era ricco, siccome vi tornerà agevole argomentare dal bisogno