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cisi: nè più speranza, timidamente vagheggiata nel profondo del cuore, di mutate venture; nè più agio a pentimenti della sorte capricciosa; la sentenza era irrevocabile, chiuso il libro dei fati.
Giunse l’alba, e il povero condannato era tuttavia seduto al suo posto, cogli occhi sbarrati, ma senza veder punto quel miracolo di bellezza che è lo spuntar dell’aurora in alto mare.
Il cielo s’imbiancava man mano; poi di temperanze in temperanze, riusciva di un azzurro carico, simile a quelle dipinture cinesi, fatte di turchiniccio, a vaporosi contorni, una fusione insomma di cielo e di mare. Ma l’aurora dalle rosee dita, come l’hanno chiamata i classici, cominciava a spargere il suo color prediletto dal balzo d’oriente; i vapori si diradavano, le leggi della prospettiva incominciavano a trionfare. Le nuvole, allungate in cirri fantastici, risaltavano tinte di rosso sulla linea dell’orizzonte, donde emergevano, nereidi mattiniere, le isole e le coste del Tirreno.
L’Amerigo Vespucci, come la nave di Giasone, s’innoltrava baldanzoso in mezzo a quel risveglio di deità marine; ma Guido, ben diverso dagli argonauti, non vedeva nulla, nè splendori di cielo, nè luccicar d’onde guizzanti, nè variopinti sereni in lontananza. Tutto chiuso nella sua cupa tristezza, egli non badava a quella grandiosa veduta. Le maraviglie della natura, come quelle dell’arte, vogliono mente calma e serena; colui che ha l’anima oppressa,