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amori felici, E già si vedeva colà, a mutare i passi lenti con lei in una di quelle grandi foreste, dove un largo padiglione di musacee e di liane intrecciate non lasciava penetrare la sferza del sole. Le ancelle, vestite dei variopinti tessuti di Madras e Mazulipatnam, uscivano dallo chattiram con larghi ventagli di acacia per venirle a rinfrescar l’aria sul viso, mentr’ella se ne stava adagiata nel suo letto pensile, saldato ai noderosi rami di due alberi di mangifere. Ed egli, seduto daccanto a lei, le stava leggendo un dramma di Calidasa o un canto del Ramayana, nella lingua sacra dei Bramini, che essi avevano imparata per loro diletto e ad inganno del tempo. Per vivere in quella guisa, che non avrebbe fatto egli? Come Visvamitra, il gran re penitente, di cui narra Valmiki nel suo immane poema, egli si sarebbe rassegnato a mille e mille anni di ascetismo, pur nella speranza di essere innalzato dalla virtù della sua contemplazione al triplice regno di Indra, al firmamento azzurro de’ suoi desiderii.

Un dolore immenso, profondo, senza speranza di tregua, ha pure di simiglianti allucinazioni, come la sete prolungata ha i suoi miraggi nelle arene del deserto. Spaventose allucinazioni, quando svaniscono; dolorosi miraggi, quando il pellegrino trafelato giunge al luogo dove la fata morgana gli aveva fatto scorgere il pozzo di Nachor.

Fu un triste svegliarsi, quello di Guido!