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prima volta dacchè dimorava lassù, egli vedeva qualcheduno, oltre il solito giardiniere, nella villa sottostante. La divinità misteriosa di quel tempio era là, pallida, sfinita, ma bella, come la principessa della favola, chiusa da un incantesimo di mago geloso in un castello dalle mura di diamante.

La pallida signora si muoveva lentamente su pel sentiero, dando un’occhiata, ora a questo, ora a quello dei fiori delle aiuole circostanti. Ella si soffermava spesso, non tanto per guardarsi dintorno, come da lunge pareva, quanto per aspirare a labbra socchiuse (labbra di pallido corallo!) quell’aria tepida e ristoratrice. Appena ella fu presso ad un sedile di ferro dipinto, vi si lasciò andare la persona, come se fosse stanca oltremodo della via; adagiò gli omeri contro la spalliera, e rimase inerte, colle dita intrecciate, le braccia prosciolte, e gli occhi languidamente rivolti verso il sole, che si nascondeva allora dietro i monti d’Arenzano.

Anch’ella, povera bella, fantasticava; ma, più infelice di Laurenti, ella soffriva, e le memorie che le tornavano in mente non erano punto liete, nè caramente malinconiche, come quelle del giovine naturalista.