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matiche e della pozione corroborante che aveva bevuto poco prima.

Egli stette a contemplarla un tratto, al fioco chiarore del lumino da notte, posato sulla lastra marmorea del tavolino, accanto alla cortina del capezzale. Com’era bella in quella tranquilla postura, e com’era dolce quel sonno!

L’opera sua per quel giorno era finita, e con essa si dileguava in quel momento l’ansietà del medico che indaga ed aiuta lo scioglimento di una crisi. Allora il giovine cominciò a guardare con altri occhi, vo’ dire cogli occhi del cuore, la signora Argellani, e a misurare il gran passo che aveva fatto in quella sera, nel corso di due o tre ore. Egli si vedeva là, nel santuario, accanto a quella donna che poco innanzi ei temeva di non dover avvicinare giammai; si vedeva solo, autorevole, al suo capezzale, angiolo custode del sonno, e certamente suo salvatore più tardi.

Così almeno pensava e prometteva a sè stesso, con quella fidanza generosa che è propria dei giovani, e segnatamente degli innamorati.

Studierò, diceva in cuor suo; la scienza, interrogata dall’amore, non ha segreti,