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fiorita compagnia a teatro, con gente di loro elezione a tavola, e d’essere i veri padroni della città, quando uscivano a passeggio, senza aver molestia da ruote di carri, da scuriade di cocchieri, da gomiti di screanzati, nè nausea dalla vista continua di asini calzati, o di furfanti matricolati.

Nè di ciò solo si lodavano i Templarii, ma ancora, del poco spendere. Uno tra essi, ai predicozzi del babbo, che era venuto dal borgo natale per pagargli i debiti, poteva dir di rimando:

— Di che vi lagnate, padre mio? Domandatene a quanti mi conoscono, e tutti vi diranno che vivo con una lira al giorno.

— Ah sì, con una lira? E il resto va tutto in libri, lezioni e limosine, non è vero?

— No, padre mio; non sono tanto ricco da far limosine; lezioni particolari non ne prendo, e i libri non li pago.

— Sentiamo dunque dove va il tuo denaro.

— Ecco, cinquanta centesimi tra assenzio e caffè.... Voi vedete che non è molto! poi, trenta centesimi di sigari, venti di giornali; tutto sommato, è una lira.

— E il pranzo, manigoldo? E la cena, e le male spese?

— Ah! tutto ciò, padre mio, entra nel conto della notte. Io vi dicevo quello che spendo al giorno, e certo non troverete che sia molto. —

Buona pasta di giovani, quei Templarii! Si riscaldavano per una questione di politica, d’arte o di scienza, come tanti e tant’altri per far roba e quattrini; si ficcavano animosi in ogni ginepreto, col medesimo ardore che altri metterebbe a cavarsene. Non c’era forma, non delicatezza d’intelligenza, a cui fossero o volessero rimanersi stranieri; e tutto ciò senza sussiego, senza pedanteria, senza sforzo. In una città mercatante e affaccendata come la loro, essi erano gli ospiti cortesi, i cerimonieri, i ciceroni volenterosi, di quanti giungessero, artisti, letterati, giornalisti, scienziati d’altre parti d’Italia, anzi d’Europa a dirittura, per visitare la regina del Tirreno. Parecchi di questi signori confessarono ai Templarii, dinanzi a un piatto di dàtteri di mare, che avevano molto sbadigliato il mattino, in compagnia di certi incravattati e stecchiti arcifanfani. Qualche gran diplomatico, ristucco delle visite ufficiali e dei pranzi di gala, respirò liberamente in mezzo ai notturni cavalieri, e dichiarò ad alta voce, tra due sorsate di Barbèra (oh, indimenticabile Sir James Hudson!) che gli Italiani valevano assai più dei loro rispettivi governi.