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che sostenevano canestri di fiori e candelabri. Su questi erano piantati in gran numero i torchietti di cera che aggiungevano la loro luce a quella di un grande lampadario sospeso nel mezzo, e scintillavano, non sappiamo bene quante volte, nei molteplici riflessi de’ grandi specchi che pendevano dalle pareti. I canestri poi erano colmi di fiori freschi, che parevano raccolti alla rinfusa ed erano in quella vece le più accorte mescolanze immaginate dalla più sapiente tra tutte le sacerdotesse di Flora che mai profumasse della sua variopinta merce un portone della via Nuova o della via Carlo Felice.

Ma a gran pezza più splendide dei doppieri, e più belle dei fiori, erano le gentildonne genovesi, che portano il vanto della bellezza su tutte le donne del mondo (ogni scrittore o cortigiano d’altro paese potrà dire lo stesso di casa sua, che noi non ce ne recheremo più che tanto) e che, vestite in gala, ornate di perle, luccicanti di gemme e diamanti, apparivano stelle di prima e di seconda grandezza nell’azzurro del cielo, o Dee dell’Olimpo, che torna lo stesso per chiunque ricordi l’origine astronomica di tante umane idolatrie.

Mollemente adagiata su d’un ampio sofà, coperto di velluto verde scuro, stava la bella Usodimare, il cui nome non si usava mai scompagnare dall’epiteto, per modo che quest’ultimo era diventato necessario a far capire che si parlava di lei. Sebbene la marchesa Giovanna Usodimare avesse già contate le sue trentasei primavere, appariva pur sempre giovane, e non cedeva la palma ad altre parecchie di più recente splendidezza. Il naso, superbamente fermato senza incavatura al basso della fronte, la faceva rassomigliare alla Venere di Milo, della quale ci aveva pure la bocca disdegnosa e i capelli increspati: ma un diadema di conchiglie mezzo nascosto nelle ciocche rivoltate alla foggia greca verso le tempia, e un vezzo di perle che rompeva i magnifici contorni delle spalle ignude, ricordavano più agevolmente Anfitrite, la regina del mare. Perciò voi potete giurare, o lettori, che il marchese Onofrio De’ Carli, da quell’ostinato cultore del madrigale ch’egli era, non tralasciasse l’occasione di bisticciare tra la dea del mare e il casato della marchesa, e di paragonare i cavalieri che la ci aveva dintorno ad altrettanti Tritoni, sebbene non facessero tanto sprazzo di schiuma com’egli, quando gonfiava le gote.

Nè meno risplendeva per eleganza di forme la sua parente Erminia Lercari, sebbene la bellezza di costei derivasse da un tipo al tutto diverso. Era una svelta ed aggraziata