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— È il rosignuolo; — mi dice un contadino che passa e che mi ha dato il buon giorno.

— Il rosignuolo, quello? — esclamo io. — Avrei detto un corvo, piuttosto, o una gazza, sua parente.

— Nossignore, gli è proprio il rosignuolo. Da mezzo giugno in poi, canta così. È nel nido.

— In famiglia, non è vero?

— Eh sì, come vuole Vossignoria. La casa del rosignuolo è il suo nido, e la rosignuola è sua moglie. —

Ho capito, e ne sono tutto confuso. Dunque la storia è questa?

Appaiato e contento, il rosignuolo non canta più così bene come quando faceva all’amore; anzi, non canta più affatto, dà fuori un grido rauco d’animale accidioso e brontolone. Ah, figlio d’un.... rosignuolo anche tu! Dopo le dolci pene del desiderio, la fiaccona del possesso; e addio le ventiquattro arie diverse, non tenendo conto delle variazioni, dei passaggi, delle rifiorite che nel tuo canto ha notate con diligenza tedesca il Bechstein. Ma sono uomini, dunque, i rosignuoli? uomini anch’essi? Ahi, triste cosa!