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piano, leggermente incavato, è tutto un tappeto di verde tenero, che si ravviva di toni gialli al sorriso del sole; screziato a capriccio dalle candide rappe delle piantaggini tremolanti alla brezza sui loro elegantissimi steli, o dai rossi calici spampanati dei rosolacci in ritardo; rotto a larghi intervalli, o infoscato sui lembi, da cesti di sermollino, da ciuffi di règamo, da cespugli di mentastro. In capo alla prateria, che sale via via come il labbro d’una coppa di malachite, sorge e si spande una siepe di carpinelle, oltre la quale si leva la costa del poggio, tutta densa di castagni fino al suo colmo, donde sbuca un campanile aguzzo e trapela il tetto della chiesuola di Santa Giustina.

Non conosco la santa, e non ho ancora veduto il santuario. È la prima volta che mi decido a passare il fiume, e che quel campanile m’invita.

Dicono che il fulmine l’abbia già visitato due volte. Certo, il fulmine è più volenteroso alpinista di me; ed anche più allegro. Lo ha notato il poeta nella indimenticabile strofa: