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tevole. In capo a dieci minuti, che noi abbiamo spesi a guardarci dattorno, tutte le sedie dell’albergo di Roma son collocate intorno alla tavola, o, per dire più esattamente, alle due tavole accostate.

Vengono i bicchieri, le bocce dell’acqua, le saliere, le pepaiuole, e molte bottiglie di vino, che alle signore paiono troppe davvero. E vengono i principii, tanto cari a Filippo Ferri, che ammira la bellezza dei sedani strappati freschi freschi nell’orto, le olive, i peperoni, i cetriolini e i capperi sotto l’aceto, ma più un pan di burro che arriva, per far buona compagnia a quattro scatole di lamiera, saviamente munite della loro chiavetta, che girando trarrà via la lista metallica stagnata torno torno, permettendo di scoperchiare quattro ipogèi di sardelle sott’olio. Si attacca allegramente tutto ciò che è in tavola; ogni aggiunta è salutata da un nuovo grido di gioia. Le signore si divertono qui, come facevano nella faggeta del San Donato, e più ancora, perchè si trovano meglio sedute, e meno sparpagliate. Non c’è la possibilità di un lawn-tennis; ma ci vorrà