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me. Cari fantocci di cenci, con la testa di legno, che da ragazzo mi parevano uomini, e più mi paiono uomini quanto più m’inoltro nell’esperienza del mondo; sempre quelli, sempre maneggiati da un burattinaio invisibile dietro la tenda, per dire e per fare mai sempre le medesime cose, con quelle loro smorfie intagliate, fissate, irrigidite nella sorda materia! E noti, signorina; quelle smorfie sono le loro qualità e le loro virtù, i loro difetti e i loro vizi, un po’ contraffatti, ma per eccesso di significazione, che è pur necessario, a darci da lontano l’apparenza del vero. E riescono tanto evidenti, così! Non c’è modo di scambiar gli uni per gli altri, nè da crederli diversi da noi. La nostra sciocchezza e la nostra viltà, le nostre astuzie e le nostre piccinerie, tutto ciò che siamo e tutto ciò che sentiamo, hanno la loro espressione chiara, sicura, efficace, in quelle facce di legno.

Tutto il teatro, e per conseguenza tutta la vita, è là dentro, e non c’è più nulla da aggiungere. Com’è giunto l’uomo, per qual arte divinatoria, per qual lampo d’ingegno,