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— È qui! — gridò Cesarino trionfante, facendomi da battistrada.
La mia bella castellana era nel vestibolo. Portava una veste di seta leggiera, traente al bianco, e screziata a furia, giusta una foggia imitata dai tessuti orientali. I suoi bellissimi capegli neri, sdegnando l’alta e mazzocchiuta acconciatura del tempo nostro, si attorcigliavano con greca eleganza sulle tempie, si ravviavano in morbide anella dietro gli orecchi, e annodati sulla nuca lasciavano ricadere una lucida ciocca sul collo. Era l’acconciatura della Venere di Milo, a cui la mia bella compagna non faceva pensare solamente per questo.
Ella si avanzò in atto cortese sull’uscio, e mi sporse la mano, che io divotamente baciai. Nè trovai lì per lì una parola da dirle; la guardavo attonito, rapito da tanta bellezza, confuso dalla mia stessa felicità.