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— si fece a dire quell’altro, che il Picchiasodo chiamava rispettosamente messer Pietro; — e anche non amando i genovesi, si possono avere in pregio i genovini.

— E’ sono il meglio di quella gente là! — rispose mastro Bernardo, ridendo liberamente, da uomo che non aveva più sopraccapi. — Ma ecco la frittata, magnifici messeri; — soggiunse, vedendo tornare il Maso e levandogli di mano il piatto, con quel disco appetitoso nel mezzo; — guardate se non par d’oro anche questa.

— Or ora ne faremo il saggio; — disse il Picchiasodo. — Ma guardate, messer Pietro, voi che siete così vago della bella natura; guardate com’è bene indorata dal sole quella vetta laggiù. Di’ su, amico ostiere, come si chiama?

— È la roccia di Pertica, — rispose mastro Bernardo.

— La è proprio a cavaliere del castello; — notò il Picchiasodo. — Io, per me, se fossi nei panni del Marchese, temerei sempre di vedermi cascare di lassù un genovese sulla groppa.

— Sì, se un genovese avesse l’ali! — disse asciuttamente mastro Bernardo.

— Che? non ci si sale, fino a quel colmo?

— Che io mi sappia, non ci ha mai posto piede anima nata. E’ bisogna vedere la roccia alle spalle, là dalla parte di Calice. Gesummaria! Se un negromante non ci scava i gradini nel vivo, gli è come volersi aggrappare ad uno specchio.

— Uhm! — borbottò il Picchiasodo. — E quell’altro cocuzzolo sulla Caprazoppa?

— È la roccia dall’Aurèra.