Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 241 — |
— Lasagnone! — gridò costui, a mala pena si accorse dal guaio.
— Scusate, Falamonica, non l’ho fatto a posta; — disse il Maso umilmente.
— Eh, non ci mancherebbe altro che tu l’avessi fatto a posta! — replicò il Falamonica, che così avea nome il paggio. — Va là, buono a nulla; per colpa tua si perderà un’ora di tempo, e le ripassate toccheranno a me. —
Frattanto si accostava al murello e guardava a sua volta nel pozzo.
— Ah, manco male! — soggiunse. — La secchia non ha bevuto e galleggia. Ora dimmi, bertuccione; come faresti tu a cavarla dell’acqua?
— To’! disse il Maso. — La bocca del pozzo non è troppo larga; mi calo dentro, aiutandomi colle mani e coi piedi...
— E dai un tuffo anche tu, babuasso! — interruppe il Falamonica. — Il guaio non sarebbe dei grossi, per verità; ma tu potresti, nell’affogare, mandarmi al fondo la secchia. Per fortuna, il mio diavolo la sa più lunga del tuo. Stammi a vedere ed impara. —
Così dicendo, il Falamonica trasse di tasca la corda di ricambio della sua balestra; l’annodò con quell’altra, che aveva avuto cura di spiccare dai due capi del suo strumento di guerra, e v’adattò in fondo il crocco, che era il gancio del martinello con cui si caricavano le balestre, e serviva a tender la corda fino a quel punto del fusto, o teniere, che dir si voglia, dove s’incoccava la freccia.
Il pozzo non era molto profondo, e il Falamonica,