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alzavano da sedere, corse difilato, come già avea fatto una volta, ad appiattarsi dietro il suo carro.

E là, fingendo di dormir della grossa, il povero Maso s’immerse nelle più profonde meditazioni intorno al modo di uscire di mano ai nemici e di avvisare il Borgo del tradimento ordito a suo danno.

Ma questa gretola era più difficile a trovare che non sembrasse a tutta prima. Osservare la forma dello steccato, le consuetudini delle scolte, e quelle del Campora, trar profitto delle occasioni, avere un occhio al cane e l’altro alla macchia; queste erano tutte cose bellissime, che il Maso si disponeva a fare, ma colle quali non cavò quel giorno, nè il giorno seguente, un ragno da un buco.

Bene andava egli mattina e sera col paggio del Picchiasodo ad attinger acqua in un pozzo, che era in una certa forra a tramontana, poco lunge dello steccato. Ma egli lavorava, e il paggio colla balestra stava a fargli la guardia, come fa l’aguzzino alla ciurma. Anselmo Campora, che non lo aveva veduto nella occasione del suo colloquio col Sangonetto, saputo com’egli fosse andato da solo a pisolare in un canto, aveva sgridato il paggio, ordinando che d’allora in poi non lo perdesse più d’occhio. Ospite sì, ma prigioniero, e certi riguardi non si dovevano smettere. Così fu tenuto alla lunga il falconetto dell’Altino; ed ebbe un bel beccarsi i geti e dar l’anima al diavolo; la sua inquietudine non gli fruttò che una vigilanza più stretta.

Il Sangonetto dopo essere andato dal capitano generale, non si era più visto nella baracca del Campora. Certo era rimasto in custodia della compagnia