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non fa oramai maggior conto dei Carretti, pigliati a mazzo, con tutta la loro protezione, di quello che voi ne facciate, sia detto con vostra licenza, messere Anselmo riverito, d’un fondigliuolo di fiasco.
— Eh via, che ne sapete voi? — disse il Picchiasodo, ridendo del paragone. — Se il vino non fa posatura, anche la fondata è buona da bere. Vedete questo vino di Calice, come è chiaro e sfavillante, sebbene già il piede vi faccia imbuto per entro.
— Sicuro, — replicò il Sangonetto, — ma supponete che nel calice dei marchesi, nostri padroni, ci sia della feccia, e che Giacomo Pico sia giunto a questo bivio, di gittare, o di bere.
— Spiegatevi meglio; ci vedo buio pesto, finora.
— Ecco! Rammenterete, io non dubito, la cagione dell’alterco di Giacomo col vostro magnifico messer Pietro Fregoso.
— Sì; cioè, ricordo che non ce n’era, e che il vostro amico lo aveva tolto in iscambio.
— Rivalità d’amore; — soggiunse Tommaso. — Il mio povero amico avea perso la tramontana per madonna Nicolosina del Carretto.
— Sta bene; questo è il gran punto. Tirate innanzi.
— Madonna Nicolosina non voleva saperne di Giacomo Pico.
— Davvero? Eh, infatti, — soggiunse Anselmo Campora, — sappiamo che la ci ha poi sposato il suo conte di Cascherano, Ma ciò non toglie.... che anzi!
— Eh, l’ho detto ancor io, da principio, quando non sapevo niente dei loro segreti e pensavo che le malinconie di Giacomo gli venissero tutte dal padre.