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dato del chierico a Tommaso Sangonetto, aggiungendo ch’egli doveva averci nelle vene inchiostro per sangue.

— Ero io quella volta e quest’altra; — rispose il Sangonetto: — e come allora parve buono il consiglio, così ora... mi sembra...

— Eh, non dico di no. Sarebbe un bel colpo e il tentarlo piacerebbe a più d’uno. Ma chi mi assicura che non fosse un tranello?

— Ma... la parola di Santino da Riva, vostro capitano e prigioniero dei nostri...

— La parola, avete detto bene. Infatti, Santino da Riva è un buon laico e lascia scriver chi sa. Capisco quello che mi potreste rispondere. Se la prima lettera diede un buon consiglio...

— Ecco! — interruppe il Sangonetto, con aria di trionfo.

— Essa, — prosegui inflessibile il Picchiasodo, — non ci persuadeva già un colpo temerario, ma un atto di accorgimento sopraffino, che a messer Pietro Fregoso era venuto in testa più volte. Qui invece si trattava di una mezza pazzia... che è poi quasi inutile, al punto in cui sono le cose. Santino da Riva è un buon soldato, ma non ha il diavolo in testa e nemmanco nell’ampolla; poteva dunque aver dato nella pania.

— Ma adesso... — entrò a dire il Sangonetto.

— Sì, adesso lo so, che il consiglio viene da voi. Ma voi, chi siete? che malleveria mi date? E prima di tutto, qual fine è il vostro? che tornaconto ci avete a farci servizio?

— Grandissimo; — rispose il Sangonetto, con aria maestosa. — Congiuriamo, al Finaro; Genova è republica; vogliamo appartenere a Genova, perchè vogliamo la libertà.