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rato a sostener l’urto de’ suoi fondatori. Senonchè, i genovesi parevano piuttosto propensi a minacciare, che a muover guerra risoluta e gagliarda. L’ultima ambasceria, quella di messere Ambrogio Senarega, non avea l’aria di recare ai Del Carretto le ultime ragioni della Repubblica; epperò se ne aspettava un’altra, con grande molestia dei finarini, i quali vedevano le loro valide braccia rapite all’utile lavoro dei campi o delle officine, per aspettare un nemico che non veniva mai, e tutti li costringeva a quell’uggioso stato di aspettazione, che non è guerra, nè pace, e non dà modo di godere i frutti di questa, nè di sperare imminenti le conseguenze, buone o triste, di quella.

E adesso il lettore intenderà di leggeri con che animo mastro Bernardo, da buon cittadino e da oste a cui premeva il suo traffico, paventando il futuro, si facesse a considerare il presente, e con che po’ di sospetto dovesse badare a que’ due forastieri, i quali, in cambio di starsene in una camera al caldo, andavano a far sosta sul terrazzo, e più assai che di gustare i principii di tavola, si mostravano teneri di studiar prospettiva.

L’impazienza rosolava mastro Bernardo, ben più che i carboni ardenti non rosolassero il pollo. Ne avvenne, che egli si tenesse ancora nelle dita una serqua di giratine, e messo il pollo in un vassoio di terra savonese (che cominciava allora a soppiantare le terre cotte di Majorica), lo portasse egli in persona a’ suoi ospiti.

Erano ambedue seduti sul murello dell’altana, quando l’ostiere comparve dall’abbaino, col suo piatto fumante tra mani.