Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 225 — |
gre bevute. Se gli fosse capitato anche mastro Bernardo, che festa! di certo lo avrebbe abbracciato.
L’alloggiamento del Picchiasodo, distante una balestrata dal fosso, era, come si può argomentar di leggieri, una baracca e niente di più, cioè a dire una capanna fatta con assi e coperta di frasche, breve fatica de’ suoi bombardieri, a mala pena erano calati a piantare le artiglierie nella bastita di Pertica.
Non c’era che una camera, ma questa abbastanza capace. Il letto (se letto può dirsi una cuccia di strame con suvvi una coperta di lana) si vedeva in un angolo, e un lungo spadone appiccato alla parete vi raffigurava indegnamente l’olivo pasquale. Tutto intorno fiaschi e stoviglie, una rozza panca ed una rozza tavola, dinotavano che Anselmo Campora non si raccoglieva in quel suo romitaggio per recitar paternostri.
Giunti appena colà, il Maso ebbe le nari soavemente vellicate da un odor di stufato, che dovea rosolarsi a lento fuoco in una cucina posticcia, dietro la baracca del suo ospite. Nè meno grato gli giunse un altro odore di basilico, aglio, maggiorana e cacio pestati insieme; stillato, elettuario, nettare, ambrosia e tutto quel meglio che vorrete, donde ogni naso ligustico fiuta le dolci impromesse di una minestra maritata. E non mi faccian niffolo le signore lettrici, se per avventura questo racconto ne ha; imperocchè tutto è buono, anche una minestra maritata, e sto per dire anche per la bocca più leggiadra, purchè capiti a tempo.
— Che te ne pare, eh? — dimandò il Picchiasodo, notando l’aria di beatitudine che si diffondeva sulla