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— Che c’è? chi mi chiama? — gridò egli con piglio impaziente.
— Son io, messere Anselmo; non mi conoscete?
— Io! persona, prima; — borbottò il Picchiasodo; — e che altro sei tu?
— Il Maso, messere; non mi abbandonate. Sono il ragazzo dell’Altino.
— Ah! — disse il vecchio soldato, inarcando le ciglia. — Diffatti, la riconosco, quella tua faccia di capocchio. Vien qua, buona lana, e non avertelo a male. Finisco di dire una parolina a’ tuoi concittadini e sono da te. —
Così dicendo, il buon Picchiasodo curvò amorosamente la testa sull’òmero della sua dama, fece l’occhiolino nei due traguardi che le ornavano il capo, e parve contento del fatto suo. Quindi, pigliato dalle mani d’un servente l’uncino, ne accostò la punta arroventata al focone. Un lampo incoronò la bocca della signora Ninetta in mezzo ad una nuvola di fumo, e con fragore di tuono, partì fischiando una bigoncia di sassi.
A mala pena ebbe dato fuoco alla bombarda, il Picchiasodo levò la fronte e tese l’occhio verso la strada.
— Di punto in bianco! — gridarono poco stante i serventi, che stavano alle vedette, quali inerpicati sulle traverse della stecconata, quali in bilico sui carretti delle artiglierie. — Vedi che squarcio! E come son ruzzolati! Ne hanno abbastanza, di treggèa; scantonano alla lesta, come gatti scottati dall’acqua calda.
— Lo credo, io; s’è fatto miracoli; — disse il Picchiasodo ridendo. — La signora Ninetta è una don-