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malizia che era il ragazzo dell’Altino. Già, egli bisogna dire a sua scusa, che balordo lo avea reso il padrone, non gli lasciando mai pace e rimeritando alla cieca con pan buffetto e cacio scapezzone ogni bella e brutta cosa ch’egli dicesse, o facesse. Triste vita pel Maso, sentirsi a trillare nel capo la sua vivace natura, e doverla respingere nel più profondo del cuore! Aveva voglia di saltare per la casa e doveva star cheto per la paura di qualche soprammano; era mogio e doveva saltare in fretta, per cansarsi da un sottonsù che gli era scoccato senza preamboli. Se ne ricattava con certi suoi lazzi, smorfie e marachelle degne d’una bertuccia, di cui spesso recitava il paternostro in qualche angolo della casa, quando avveniva che i saluti del burbero padrone fossero giunti al loro ricapito.
Mastro Bernardo non era cattivo, bensì un tal poco fantastico. La povertà inasprisce il carattere, e all’ostiere dell’Altino il non poter sempre ragguagliare l’entrata con l’uscita facea spesso uscire il cervello dai gangheri. Del resto era un buon diavolo, amava il suo paese, la sua casa, la sua famiglia, e, quantunque a modo suo, anche il ragazzo, bocca inutile, com’egli soleva chiamarlo. Quando vennero i tristi giorni pel Finaro, fu egli che diede al Maso l’esempio delle opere forti. Veduto lo spianto della sua casa e la impossibilità di ripigliare il suo traffico di vin cristiano, era andato a mettersi nelle mani della sua cara nipote; per intercessione di lei aveva appoggiato la sua famigliuola al castello, e, indossato un vecchio panzerone di ferro che si ricordava de’ suoi vent’anni, aveva detto tra sè: «crepi l’avarizia, quest’oggi il marchese avrà un soldato di più».