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Si affrettò, dico, ma non fu tanto sollecito a ritornare, come al padrone pareva che egli ragionevolmente dovesse; epperò n’ebbe da mastro Bernardo un’altra ripassata delle solite.

— Diamine! — sclamò il Maso. — Come ho a fare? Cinquantadue scalini non si salgono e non si scendono mica in un batter d’occhio!

— Cinquantadue! Tanti ce n’ha dal pian terreno al terrazzo.

— E appunto lassù ho dovuto apparecchiare. Hanno voluto così. —

Mastro Bernardo rimase lì a mezzo, colla mano sullo schidione e le ciglia inarcate.

— Che diavolo! — gridò egli sbalordito. — Sul terrazzo? in fin di novembre?

— La giornata è bella; — notò il ragazzo. — I due messeri hanno detto che par primavera e vogliono profittarne per godersi la vista....

— Della Caprazoppa! — interruppe l’ostiere.

— Eh, già, della Caprazoppa; — soggiunse il Maso. — Voi stesso, padrone, non dite che la valle è stretta, ma bella a vedersi? E poi, non si vede soltanto la Caprazoppa, di qua. Si guarda a manca, e si vede il mare; a destra, e si vedono le case del borgo, il castel Gavone e la roccia, di Pertica, Così l’hanno intesa i due forastieri, e, scambio di mettersi a tavola, sono andati a sedersi sul murello, per contemplare il paese.

— Uhm! uhm! — borbottò mastro Bernardo. — Che fossero davvero due genovesi? Bisognerà sincerarsene.

— Padrone, — ripigliò il Maso, — s’ha a darlo in tavola, il pollo?