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Maso, che tornava in quel punto da apparecchiare la tavola, lo intese e da buon cortigiano entrò a dire la sua.
— Padrone, o che credete, che l’Insegna dell’Altino la non ci abbia il suo buon nome per tutto il paese? Chi non lo sa, che il miglior vino di Calice viene a farsi bere nella nostra osteria? E non sono già soli i terrazzani, che ci hanno la divozione a questo santo, ma anco i forastieri, che pure non avrebbero a risaperne gran cosa. Vi ricordate, padrone, quel pezzo grosso di genovese, che c’è capitato due volte e non c’era luogo al mondo che gli piacesse di più?
— Uhm! — brontolò mastro Bernardo, che in sulle prime aveva fatto bocca da ridere. — Brutta gente, quei genovesi! E se questi due fossero della pasta di quell’altro, meglio sarebbe dar loro acquetta, che vino di Calice!
— Ho dunque a portar loro l’acquetta? — chiese il ragazzone, con aria che volea parere melensa.
— Di che acquetta mi vai tu novellando?
— Non sapete, mastro Bernardo? quel vinello fiorito, che è sempre in fin di botte, perchè oramai nessuno lo vuole?
— Ehi, bada a te, mascalzone! Vuoi forse trincartelo tu, che fai sempre a screditarlo? Ci ho a fare un nipotino ancora, prima che tu ne assaggi!
— Un nipotino su quel vinello? Sarà acqua schietta, allora — notò il Maso tra sè.
E raumiliato in vista, ma contento d’aver detto la sua, andò a spillare il migliore, per servir degnamente i due forastieri; indi, colmate le bottiglie, si affrettò a portarle di sopra, insieme col pane e i camangiari.