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— Magnifico messere.... — balbettò egli, ingrullito; — ed io?

— Con me e col tuo valoroso amico all’impresa di Noli; — rispose amorevole il marchese Galeotto. — È giusto che io non tolga ai miei buoni vassalli l’occasione d’illustrarsi con qualche atto di singolare prodezza. E tu, mio buon Tommaso, n’hai certo una voglia spasimata.

— Se l’ho, magnifico messere!... Certo, che l’ho; l’hanno tutti! — farfugliò il Sangonetto, che non sapeva a qual santo votarsi. — Ringrazio il mio illustre signore e la fortuna che mi ha destinato ad accompagnarlo sul campo della gloria. —

Cotesto ad alta voce e cercando di dare nella rotondità della frase un concetto della sua eloquenza d’ambasciatore fallito.

Ma dentro di sè, il prode Tommaso Sangonetto masticava ben altro.

— Ah per l’anima di.... L’ha a contare, le mie prodezze, il marchese! Già, o come vuol fare? Dopo l’Avemaria, tant’è la tua come la mia, ed egli non vedrà proprio un bel niente. Io le conosco, le mura di Noli; ritte, puntigliose, accigliate, su quei loro greppi impraticabili, con quelle torri che escon fuori di riga ad ogni cinquanta passi e vi mandan giù l’ira di Dio!... No, no, l’appoggi un altro, la mia scala; io sto a vedere chi casca. Dopo tutto, o che? io l’amo, quella repubblica; si governano da sè; non ci hanno marchesi, nè conti; non pigliano gatte a pelare; non domandano che di pescare tranquilli le più saporite triglie di tutta l’Italia. Ottimi cittadini! Li piglio a proteggere. —