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di Osiglia, donde si sentiva sicuro alle spalle, non gli teneano più fede.

Non si smarrì tuttavia, non si perdette d’animo; che anzi, il sapersi solo, accrescendogli la malleveria dell’impresa, gli aggiunse le forze della disperazione. Sì, veramente, con mani e con piedi, come aveva scritto al doge di Genova, era egli inteso a difendersi. E quella sua baldanza inanimiva i Finarini, li incuorava non solo ad affrontare arditamente i pericoli, ma a sopportare con fermezza i danni della guerra.

E questi pur troppo erano gravi. Dal poggio di Maria, le cortane e le spingarde nemiche gittarono trecento pietre nel Borgo; trecento ne gittarono esse sole, e di gran peso, le tre bombarde maggiori, che tutte traevano a giusta mira contro la torre della Rasana, la più forte che fosse sulla cinta dei muri.

E Galeotto a rispondere con un’altra sortita, più vigorosa a gran pezza delle altre, Barnaba e Paolo Adorno lo seguono; Giovanni suo fratello, Giacomo figlio d’Oddonino, Lazzarino figlio d’Urbano, ed altri giovani egregi del suo parentado, si tengono ad onore di combattere, come semplici soldati, al suo fianco. Scende una grossa schiera da Calvisio, per la valle di Pia, e molesta i Genovesi alle spalle; si voltano essi per rincacciare gli audaci, ed ecco, sono assaliti di fronte, al battifolle del poggio di Maria, a quello dell’Argentara, con una furia che mai la maggiore. Basti il dire che in questo parapiglia improvviso, Anselmo Campora fu ferito accanto alla signora Ninetta di cui si fece riparo al corpo, mentre da solo sosteneva l’assalto di cinque nemici. Ne uscì, per altro, ad onor suo, con una di quelle che egli dicea graffiature