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cessero per arricchire i Fregosi. Nicola, cugino di messer Pietro, intascava per ogni nuova bastita dugento fiorini, e questi in prezzo dell’opera sua, mentre assai più gliene erano pagati per l’opera degli artieri, ai quali non ne dava neanco cinquanta. Ma queste forse erano ciarle dei malevoli. Anche i nemici dicevano che tante bastite non servissero a nulla; eppure, la mercè di questi saldi ripari, l’esercito genovese aveva potuto farsi tant’oltre, in luoghi così malagevoli per natura, e pericolosi, poi, se tenuti da un forte e risoluto nemico.

In tal guisa era stretto il Finaro, che, a detta del Picchiasodo, non poteva uscirne un uccello a volo, che nol vedessero i Genovesi, ed egli inoltre poteva contare le casseruole e i tegami appesi alla parete nelle cucine degli assediati.

Questo era forse un vanto soverchio; ma certo la vicinanza dei nemici doveva parere già troppo molesta a Galeotto, che, insieme col fratello Giovanni, usciva ogni giorno a battaglia. Francesco, il capitano generale, non era più con esso loro; andato verso Garessio, per affrettar la venuta degli aiuti che mandava la lega, avea fatto come il corvo dell’Arca; non s’era più visto, e gli aiuti promessi, nemmeno.

Tardi ricordò Galeotto che il suo capitano generale era cugino di Marco, del tiepido signore di Osiglia; più tardi ancora riseppe che Genova a Marco e ai cugini suoi prometteva di dare la parte loro del marchesato, quella stessa che i loro antenati Emanuele ed Aleramo avevano posseduta. E quando ciò seppe, argomentò che dai congiunti suoi delle Langhe non aveva più nulla a sperare, e che le vie di Calizzano e