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dove; egli stesso, andato per pochi istanti a vedere l’infermo e trovar modo di bisbigliare una parolina alla Gilda (che lo vedea volentieri come il fumo negli occhi) non ne avea pur rifiatato. Vanaglorioso ed ingrato, il nostro Tommaso già sentiva la carica.
Diremo noi brevemente dove fosse andato; in Francia, alla corte di Carlo VII, il re di cui avea detto Lahire, che perdeva «allegramente» il suo regno, e a cui il fiore dei cavalieri francesi e una meravigliosa pulzella dovevano riconquistarlo più tardi; ci era andato, non già come ambasciatore, bensì col più umile e più sollecito ufficio di corriere, e portava, da buon corriere, una lettera.
In essa, Galeotto rammentava l’ossequio dei Carretti e la loro divozione ai reali di Francia; ricordava come un Nicolò, suo zio paterno, combattendo per Carlo e pel nome francese, fosse stato ucciso in battaglia dagl’Inglesi invasori; soggiungeva essere egli stato mai sempre nemico acerbo ai Fregosi, i quali, essendo Barnaba Adorno doge di Genova, avevano ingannato Sua Maestà, pigliandone molte migliaia di fiorini contro la promessa d’impadronirsi di Genova e darla a lui; e l’avevano presa e l’avevano tenuta per sè. Vendicasse adunque lo scorno patito, soccorrendo il Finaro contro i Fregosi. Questi erano odiatissimi a Genova, di guisa che sarebbe tornato agevole al re, combattendo i Fregosi e avendo dalla sua il Finaro, insignorirsi di quella repubblica. Anche Galeotto, come si scorge di qui, vendeva la pelle dell’orso. Costume dei tempi!
Andava dunque il Sangonetto con grande celerità e presentava la lettera. Essa piacque oltremodo al re,