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settentrione, apparisce dirupata, inaccessibile, come una di quelle rocche incantate che vide e ritrasse la fantasia dell’Ariosto. La vetta del monte, le bianche torri di Castel Gavone e i sottoposti declivii, risplendono al sole; il borgo del Finaro non si vede, ascoso com’è dietro un colmo di piante, ma lo s’indovina dalla merlatura di qualche torrione, o dalla guglia di qualche campanile, che sbuca dal verde.

I due cavalieri s’erano avviati per una stradicciuola sulla riva sinistra del torrente. Poco o nulla, inoltrandosi, potevano più scorgere di quella scena meravigliosa, che, allo svoltare della Marina, s’era parata dinanzi a loro. Il luogo era piuttosto basso; la prospettiva chiusa da alberi frequenti, da siepi e casolari. Ma eglino, a quanto pareva, non si curavano molto di godere la bella veduta, bensì di trovare un certo edifizio, che doveva esser meta, o stazione, del loro viaggio.

Ora, sebbene da quelle parti là non fossero mai stati, tale era la forma, e così chiara l’insegna del luogo cercato, che essi non ebbero mestieri di pigliar lingua da alcuno, per ritrovarlo. La forma era comune, anzi rustica a dirittura, ma notevole per un largo terrazzo sormontato da una pergola, su cui alcuni ceppi di vite, serpeggiando lunghesso i muri, erano saliti ad intrecciare i nodosi lor tralci, che per la stagione inoltrata apparivano spogliati di fronde. L’insegna, poi, era un ramo di pino, sporgente sull’angolo dell’edifizio, vicino ad un muro di cinta, nel quale si apriva il portone, per dar àdito alla casa e all’orto attiguo.

Giusta le apparenze, il padrone del luogo, o fit-