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gersi; e ad ogni nuovo colpo ne crollavano con alto frastuono larghissime falde. Già sui parapetti e lungo i ballatoi non si poteva più stare.

Come il Fregoso vide in tal guisa avviato il lavoro del Campora, mandò sotto le mura un araldo. Allo squillar della tromba, Antonio Del Carretto, il difensore del castello, si affacciò sulle macerie.

— Per comando dell’illustrissimo capitano generale dei Genovesi, messer Pietro Fregoso, vi è intimata la resa; — disse l’araldo; — fatelo, e sia pel vostro meglio; se no, tra due ore si dà la scalata e non isperi allora di aver salva la vita nessuno.

— Di ciò non mette conto parlare; — rispose Antonio, con piglio tra non curante e faceto. — La guerra è cosiffatta, e cui non garba il giuoco stia co’ frati e zappi l’orto. Dite piuttosto, che patti ci fa il vostro capitano, se noi si rende questo mucchio di pietre?

— Libera uscita, — soggiunse l’araldo, — e portando tutti con voi le armature; ciò consente messer Pietro Fregoso, in segno d’onoranza al valore. —

Il bravo Antonio rimase un tratto sopra pensiero. Gli cuoceva di dover cedere e tuttavia ben vedeva di non poter resistere più a lungo. Per sè, avrebbe forse rifiutato; ma il patto era onorevole pe’ suoi compagni, e certo, poichè la difesa avea toccato agli estremi, meglio valeva portare a Galeotto cinquanta animosi soldati, che seppellirglieli sotto le rovine d’un castello perduto.

Così pensando, chiese ancora che gli si concedesse tempo fino al giorno di poi; avrebbe reso il castello, se nello spazio di ventiquattr’ore non gli giungeva