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buirsi ad amore del suo povero nido e ad una tal quale superstiziosa idea che la sua fuga dovesse tornare di mal augurio alla patria. Fino a tanto che io sarò qua, pensava egli nel suo corto cervello, non ci verranno a squadronare i genovesi; e dopo tutto, chi terrebbe d’occhio queste quattro panche e questi quattro caratelli vuoti?
Fu un brutto quarto d’ora per mastro Bernardo quello in cui i soldati genovesi comparvero all’Altino e fecero capo alla sua osteria. Ben si provò il dabben uomo a sorridere e a fare inchini a tutte quelle facce proibite (almeno, secondo lui, avrebbero dovuto esserlo in ogni paese ben governato); ma quando il comandante di tutti que’ diavoli scatenati gli ebbe detti i saluti e l’imbasciata del Picchiasodo, di quell’arnesaccio che lo aveva fatto cantare da quel babbio ch’egli era e che oramai sentiva di essere, il povero mastro Bernardo fece a dirittura una smorfia.
— Maledetta lingua! — borbottò egli tra i denti.
E borbottò ancora di più, quando, sotto pretesto di cercargli il vino che non aveva, quei furfanti si sparpagliarono qua e là per la casa, sguisciarono in cantina e gli sfondarono le botti, che non ci avevano colpa.
Per contro, siccome ogni ritto ha il suo rovescio, mastro Bernardo ebbe in quel medesimo giorno vendetta allegra di tanto dispetto. Sui prati dell’Altino, il Vecchi da Lodi si scontrò nei soldati del Finaro e lì, fino a tarda sera, altro che botti sfondate! Cento cinque genovesi restarono, tra morti e feriti, sul campo. Dei Finarini, che erano appostati in luoghi eminenti, o coperti, pochi furono feriti, e questi dalle cerbottane, coi lor tiri di rimbalzo e lontani.