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quella improvvisa rivelazione; inarcò le ciglia, strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca ad un grido, e rimase là sbalordito, come se avesse visto la tregenda, o il diavolo in carne ed ossa.

Il Picchiasodo diede alla sua volta di sprone, per farsi alla manca di messer Pietro Fregoso, e si trovò per tal guisa a pari di quel simulacro della melensaggine.

— Orbene, mastro Bernardo; — gli disse, appoggiandosi sulla staffa verso di lui e assestandogli un buffetto sotto il naso; — che è ciò? Hai forse perduto la scrima? —

Il povero ostiere, che era stato cagione di tutto quel guaio e si vedeva canzonato per giunta, alzò sdegnosamente le spalle e torse gli occhi da lui.

— Sta di buon animo, via! — proseguì il Picchiasodo. — Ho il tuo ricapito e fo conto di ritornare. Tienmene in serbo un fiasco di quest’ultimo, che abbiamo a bercelo tra noi due, ciaramellando da buoni compari sul gotto. —

E ridendo a più non posso, Anselmo Campora, detto il Picchiasodo, capo dei bombardieri dell’esercito genovese, uscì alla sua volta di là.

— Ah sì, a ciaramellare! — ripetè mastro Bernardo stizzito. — Mi si tagli piuttosto la lingua!

Amen! — soggiunse il Sangonetto, poichè furono soli. — E intanto, vediamo di aggiustare questa mala bisogna.

— Ah, messer Tommaso, tutto quel che vorrete; — gridò mastro Bernardo; — comandate, son qua. Maledetti! e dire che avevano un’aria così candida! Mangiavano e bevevano con tanto gusto!