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LETTERA VENTITREESIMA

d’Antonio Montefani Caprara

AL DOTTORE IACOPO TaRUFFI [Sa vivere del poco, e piú gli quadra un po’ di pan bruno e una cipolla mangiata domesticamente, che non le pernici e i pavoncelli delle altrui mense. Ma la salute, che ha buona, sa conservarsela.] Tenetemelo apparecchiato quel lettuccio, ché fra quindici di alla piú lunga io abbandono questo vastissimo Napoli, dopo sett’anni di soggiorno compiuti pur ieri, e me ne vengo alla mia non piccola Bologna per passare in essa quel poco o quel molto di vita che mi rimane a vivere. Giá ho fatta fare la chiestami dozzina di rasoi, ciascuno affilato in modo che varrebbe a sbarbare una regola di frati, se fosser’anco cappuccini. Ho compre eziandio due casse di mostaccioli, una buona quantitá di diavoloni, e assai paia di fibbie e delle forbici e de’ temperini, e varie scatolette di tartaruga trasparente intarsiate a fiori e a stelle d’oro, e altre cianfrusaglie in buondato, onde regalarne gli amici e’ parenti, e le donne specialmente, a patto che non mi pongano peranco nel numero de’ vecchi. E non mi sono né tampoco dimenticato quel signor «quaranta» b), che un tempo mostrava di volermi tanto il gran bene, e che pure non m’ha dato altro segno di vita in sett’anni se non un’unica lettera piú cirimoniosa che amichevole. Checché me ne diciate, io so, dottore, che la fortuna col porlo sull’alto della su’ ruota l’ha reso alquanto diverso da quello che egli era una volta. Prima che que’ suoi si morissono per porlo (i) A Bologna chiamasi coll’onorifico titolo di «quaranta» ognuno di que’ nobili, che insieme col «gonfaloniere» governano la cittá, probabilmente perché non furono se non quaranta quando dapprima istituiti. G. Baretti, Scelta di lettere familiari. 7