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LETTERA VENTESIMA

di Don Francesco Carcano a Teodoro Villa

[Dá consigli igienici e, toccando di sé e di una sua lite, finisce col dir male degli avvocati.] Ora che quella tua troppo lunga terzana se n’è finalmente ita, fa’, Teodoro, di tenere una tanto mala ospite fuori di casa tua. Io non ti credo schiavo del figlio di Semele: molto meno della moglie di Vulcano. Tuttavia vengati ricordato, anche senza bisogno, che il parco bere e la continenza sono i due cardini sui quali si sostiene quell’ aurea porta per cui s’entra nel bel tempio della salute. Io non posso star meglio di quel che sto, forse perché uso di spesso il bagno freddo e beo limonata a pranzo e a cena da molti mesi. Questa è la mia quotidiana bevanda, e, dacché mi ci sono messo, m’ha fatto un bene che non si può dire. Di quelle doglie di capo, che un tempo mi sconquassavano le tempie, non ne sento piú una; le vertigini, che un tratto mi favorivano si di spesso, se ne son ite; sino un reumatismo, che m’aveva afferrato per un braccio, s’è dileguato, cosi ch’io farei ora alla lotta col piú valente marinaro calabrese che sia; l’appetito mio pizzica del vorace e la facoltá digestiva fa il suo dovere molto bravamente. Che buona cosa il sugo d’un limone spremuto nell’acqua e indolciato con un po’ di zucchero! Fa’ di provarlo, Teodoro: chi sa che non assesti il capo e lo stomaco anche a te? Non condolerti si tristamente meco della lite che ho perduta, Villa mio buono, poiché, a dirtela, io non me ne affanno gran fatto, comeché mi sia stata portata via una buona metá delle mie sostanze. Mi credi tu si dappoco, ch’io non sappia porre nella bilancia il bene che la Provvidenza mi lascia con quello che mi toglie? Non ho io ancora qualche camperello e buon nome e degli amici cordiali e, come ti dissi piú su, una salute che si può