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LETTERA DICIOTTESIMA

di Giambattista Cipriani a Francesco Bartolozzi.

[Per riempiere il vacuo della vita villereccia non v’ha lettura piú grata dell’ Orlando furioso e del Morgante. E chi v’aggiungerá l ’ Orlando innamorato rifatto dal Berni non potrá andare piú in lá.] Chi ve l’ha scritto v’ha scritto il vero, che il nostro dilicato musico se ne va in Baviera a’ servigi di quello Elettore. Domattina parte senza fallo, ed io lo lascio andare perché non sono barigello; se lo fossi, vorrei farlo legare con piú funi che non n’ebbe il frodolente cavallo de’ greci al collo e alle gambe, il di che dalle inghirlandate fanciulle d’ilio fu strascinato nelle loro infelici mura. Non lo potendo ritenere, l’ho fatto giurare solennemente sur un grosso libro di musica composta da Domenico Scarlatti che da Municche scriverá a voi ed a me una volta almeno ogni tre mesi; e cosi non rimarremo affatto privi di lui, se v’è a far capitale d’un giuramento feffauttesco tanto tremendo. Lasciamolo andare col buon viaggio che Dio gli dia. Il Morgante ve lo manderò tosto; e non vogliate meravigliarvi nel vedergli il margine imbrattato di postille, ché quello è il mio modo di trattare tutti i libri che leggo. Dietro all’ Orlando dell’ Ariosto, il Morgante del Pulci occupa il primo luogo nell’amor mio. Scusatemi però, dottissimo Bartolozzi, s’io non mi sottoscrivo alla vostra opinione che quell’ Orlando sia troppo pieno di battaglie, di mostri, di fate e di fatature. Quelle battaglie sono tanto variate, che vorre’ quasi ve ne fossero di piú anzi che di meno; e tutte sono tanto dipinte al vivo, che un pittore non può desiderare spettacolo piú bello. Quelle arpie sono alquanto schifose, per dir il vero; ma non è egli una bella cosa vederle fuggire precipitevolmente al suono di quel corno incantato? L’orca d’Ebuda poi non mi mangia nessuna di quelle