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che l’ha abborracciato, s’ha un legittimo diritto d’ indossare il lucco e di venir a dare magistralmente la sua sentenza allo zoppo o ad altri in fatto di lingua toscana. Con quel numero ventinove alla mano, è molto facile provare che la lingua scritta dal proposto non è né quella parlata da’ toscani d’oggi ne’ loro colloqui casalinghi, né quella scritta da’ toscani antichi o moderni ne’ loro buoni libri; ma solamente una lingua da lui arbitrariamente formata senza prototipo nessuno; una linguerella da vergognarsene ogni menno: floscia, insipida, mingherla, sguaiatamente leziosa, pillottata tutta d’affettazioni e di goffaggini, e bruttamente ricamata qui e qua di strani gallicismi; una lingua in sostanza da non passare per le stamigne del frullone, chi l’abburattasse mill’anni. Le dolciate maniere del pedante, insieme colle sputatondezze del cacasodo, il Marco Cionno le ha tutte quante, col buon prò che gli facciano. Un uomo atto a confutare delle falsitá facilissimamente confutabili, l’abbiamo giá visto come il messer pedante lo chiama un «genio elevato». Qualsissia canonico del nostro duomo, o di quel di Pisa, si contenterebbe molto bene d’ esser chiamato «chiarissimo» alla nostrana; ma il messer cacasodo lo vuole chiamar «clarissimo», per convincerci che sa di latino. La «libreria laurenziana» è un appellativo troppo breve, troppo schietto e comune; e il messer pedante ce l’allunga una canna, chiamandola dottrinalmente «la nostra singoiar libreria medico-laurenziana», forse per téma che, usando l’appellativo solito, qualche scempio di leggitore non venisse a sbagliarla o a confonderla con una qualche «libreria chirurgo-laurenziana» e non «nostra» e non «singolare». Le regole della lingua sono chiamate dal messer cacasodo, e con molto smunta leggiadria, i «canoni della lingua», quasi che la lingua fosse un concilio niceno o un sinodo antiocheno. Sua Signoria «clara», se non «clarissima» anch’essa, sa un subbisso di cose belle, sa degli aneddoti, che «riguardano molti luoghi», non «del» Machiavelli, ma «di» Machiavelli, «diffícili a capirsene il sentimento», de’ quali lo zoppo «non fa ricordanza». Pedante smilzo! Cacasodo stentato! Ci voleva mò tanto a dire toscanamente che lo zoppo ’un fa motto di certi aneddoti, senza i quali