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LETTERA TRENTADUESIMA

di Giangrisostomo Teppati a Goffredo Franzini

[Niccolò Machiavelli non ha mostrato d’essere, in fatto di lingua, quel profondo speculatore ch’egli era in fatto di guerra, di politica e di governo; giacché la lingua nella quale scrivono gl’italiani s’ha a chiamare «italiana», e non «fiorentina» o «toscana», com’egli vorrebbe.] Il celebre Niccolò Machiavelli, fra le tante opere che ha scritte, ha un Discorso, nel quale si esamina «se la lingua di Dante, del Boccaccio e del Petrarca si debba chiamare c italiana 5 c toscana 5 o ’ fiorentina ’» W; vale a dire: «Se la lingua che si debbe scrivere dagli scrittori d’Italia s’abbia a chiamare f italiana \ ’ toscana ’ o ’ fiorentina ’». E, dopo d’averla disputata un pezzo a suo modo, viene finalmente a questa decisione: che il chiamarla «toscana» sarebbe poco onesto, il chiamarla «italiana» sarebbe disonestissimo, e che va chiamata «fiorentina», chi la vuole chiamare pel suo diritto nome: vale a dire che bisogna scrivere il dialetto < 2 ) di Firenze, chi vuole scriver bene. (1) Questo è il titolo dato dal Machiavelli a questa sua operetta: Discorso in cui si esamina se la lingua, in cui scrissero Dante, il Boccaccio ed il Petrarca, sí debba chiamare «italiana», «toscana» o «fiorentina». Si noti la fretta con cui il Machiavelli scriveva per lo piú le cose sue: in questo breve titolo egli ha ficcate due volte le parole «in cui». (2) Gli accademici della Crusca definiscono il vocabolo «dialetto»: «Spezie particolare di pronunzia d’alcun linguaggio». Questa definizione non è giusta, con loro buona licenza. Dovevano dire: «Nome dato a qualsivoglia de’ tanti linguaggi e parlari, ne’ quali la lingua d’un paese si divide». Il primo esempio che gli accademici s’han tratto dall’Infarinato secondo prova l’ improprietá della loro definizione. E il Redi, citato da essi nel secondo e nel terzo esempio, non ha usato bene quel vocabolo nelle sue Annotazioni al suo propio Ditirambo, usandolo come sinonimo di «pronunzia», perché altro è la pronunzia d’un parlare e altro è il parlare medesimo. Per dirla cosi di passaggio, quelle Annotazioni del Redi sono troppo sfoggiate, poiché il Ditirambo è intelligibilissimo senz’esse, né c’era d’uopo d’una tanta farraggine di note per farcelo capire. Non erat hic locus d’ostentare tanta erudizione; ma un po’ di pedanteria troppi de’ nostri signori italiani l’hanno sempre voluta avere, e troppi s’ hanno sagrificata la proprietá alla stizza di mostrarsi dotti sfoudolati. G. Baretti, Scelta di lettere familiari. 25