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LETTERA VENTOTTESIMA

di Bastiano Buonavoglia a don Vittorio Savoiano

[Quel che pensa de’ frati, del loro celibato, dei danni che reca alla societá il loro numero eccessivo; e in quale modo si potrebbero scemare, se non togliere intieramente dal mondo, tutte le odierne fraterie che gli nocciono tanto per tanti versi.] Voi mi stuzzicate, signor don Vittorio; voi mi volete costrignere a dirvi quel ch’io pensi de’ frati; voi mi riuscite quasimente importuno, insistendo ad ogni modo ch’io vel dica. Ma quando ve l’avrò pur detto, che ci guadagneremo noi? Che bene avremo fatto, io scrivendo e voi leggendo? Nessuno, per mia fé! Ch’io dica bene, ch’io dica male; che voi sappiate le mie opinioni, che non le sappiate: il mondo tirerá pure innanzi ad essere un’immensa caterva di gaglioffi privi di ragione, io continuerò ed essere quel mezzo misantropo che sono, e voi non cesserete dall’essere quel sacerdote canuto ed immacolato che siete. A che dunque scrivere senza la minima probabilitá di mutare d’un pelo le cose presenti? senza un’ombra di speranza che il mio scrivere giovi ad anima nata? Contuttociò, perché in questa mia villa sono pure del tutto scioprato, voglio satisfare a questo vostro bizzarro desiderio, a questa vostra fervida richiesta, che ho quasi voglia di battezzare «capriccio», e col solo patto voi non anderete poi a leggere queste mie ciance a que’ quattrocento perdigiorni che si stanno grattando quelle loro pance lassú in Aracoeli h). Che i frati sieno a’ di nostri in troppo gran numero; che troppi d’essi sieno soverchio ignoranti e soverchio sfaccendati; che sieno per la maggior parte ipocriti, mal casti, abbindolatori ed (i) Convento di francescani in Roma, cosi chiamato, nel quale si annoverano quattrocento frati, e situato in faccia al Campidoglio.