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LETTERA VENTICINQUESIMA

di Felice Coraggio a Giacinto Bauderi

4 [Ci s’ inganna assai credendo che i frati siano poveri ed umili, e credendolo per l’unica ragione ch’essi stessi ce lo dicono di continuo.] Vossignoria mi perdoni, signor Giacinto, s’io le dico alla piana che lo stare a detta non si conviene a’ valentuomini e Ch’Ella s’inganna maiuscolamente credendo che i frati sieno poveri ed umili, e credendolo per l’unica ragione ch’egli stessi cel dicono di continuo. No, signor Giacinto! Nemmanco i frati degli ordini piú vili possono con veritá chiamarsi poveri, per cominciar dal «povero». Cur ita crediderim, nisi quid te detinet, audi. E come possono i frati chiamarsi «poveri», se il loro genere di vita gli esenta quanti sono dai tanti mali che la povertá porta con seco? Povero è colui il quale non s’ha di che mangiare, di che vestire, di che alloggiare, se noi si procaccia coll’assiduo lavoro della propia persona; e i frati s’hanno quanto di cibo abbisognano, e s’hanno l’abito e l’alloggio a ufo, né occorre si sconcino mai d’un pelo per evitare i crudeli tocchi dati all’anima da queste tre necessitá, nelle quali la vera povertá principalmente consiste. Dicesi poco meno che in proverbio come il peggio male cagionato dalla povertá è quello di rendere l’uomo ridicolo; al che fa duopo aggiungere quell’ altro bruttissimo negozio dell ’esser l’uomo negletto, spregiato, ributtato e sfuggito, sempre che si registri nella classe de’ poveri. E vorrá Ella dirmi, signor Giacinto, che i frati sieno minimamente ridicoli e spregiati e negletti e sfuggiti e ributtati minimamente? Domine! E’ sono anzi riveriti ed ossequiati da ognuno, e trattati con amore, con garbo, con infinita cortesia; e nessuno li fugge, nessuno dá loro il minimo segno di spregio e di noncuranza, nessuno si reca a vergogna il ricettarli sotto il su’ tetto, il farseli compagni alla mensa, l’averli al destro 4