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Il conte Pietro Verri le dirá quivi come, per iscrivere nella lingua in guisa che la gente nostra ne possa intendere dall ’Alpi sino in fondo alla Calabria, fa mestiero prima di tutto rinunziare «avanti nodaro», cioè dinanzi a un notaio in forma legale, al vocabolario della Crusca, perché in quel vocabolario si sono raccolte quante voci s’adoprarono dagli scrittori buoni e cattivi dacché la nostra lingua cominciò ad essere scritta sino al di d’oggi: cosa, secondo lui, molto mal fatta e degna di sommo vilipendio, poiché fra quegli scrittori s’annovera lo sciocco Dittamondo b) insieme con molt’altri toscani, a’ quali cento scrittori milanesi hanno dato cento volte il gambetto e fattili andare co’ quattro ferri all’aria. Fatta un tratto questa importante e necessaria «rinunzia avanti nodaro», il conte Pietro Verri dirá agli attenti circostanti in quella bottega come nello scrivere i nostri libri non importa le nostre parole s’abbiano un ette di piú o un’elle o un’effe di meno del bisogno, perché l’ortografia non è se non una cosacciaccia inventata da «pedanti antifilosofi», della quale nessuno ha mai fatto il minimo caso in nessun paese, a cominciare dal di che Cadmo trovò l’alfabeto giú sino a’ di nostri. Detta questa bella cosa, il valentissimo conte soggiungerá immediate quest’altra piú bella: che per rendere la nostra lingua chiara come l’ambra fa mestieri non ci dimenticare di pilotarla bene con de’ vocaboli franzesi, com’egli fa ostinatissimamente e senza sparagno; e quindi con de’ vocaboli tedeschi e con degl’inglesi e de’ turchi e de’ greci e degli arabi e degli schiavoni ed eziandio, se ne tocca il ticchio, di frasi tartare e malabariche e cinesi e giapponesi, senza curarci mai un’acca d’autoritá veruna universalmente ricevuta e di veruna legge ubbidita universalmente, avendosi da ciascuno scrittore a considerare come questo nostro dotto secolo è il secolo della libertá; cosicché ognuno può e deve in oggi farsi una lingua a suo capriccio, al modo che tanti e tanti si fanno una politica, una morale, (i) Dittamondo è titolo d’un’opera in versi, composta da un Fazio degli Uberti. Il conte Verri nel Caffè ha sbagliato quel titolo di libro per un autore d’un libro.