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LETTERA QUARTA

d’Angiolo Querini allo stampatore Pasquali

[I gesuiti d’ Italia, che pur sono stati maestri magni di latino, non hanno mai saputo accozzare cristianamente insieme quattro righe d’ italiano.] Grazie tante, messer Giambattista, del favoritomi Quaresimale. Grazie tante e tante, vi dico, badando semplicemente all’intenzione anzi che al fatto. E poiché volete pur ch’io me l’abbia a ufo, non fia punto male, per mo’ di retribuimento, farvi qui uno schizzettino si dell’opera si di chi l’ha composta, sul riflesso che voi non siete a un gran pezzo tanto atto a giudicare di libri quanto siete atto a stamparli. Sappiate dunque, Pasquali nostro, come il padre Iacopo Antonio Rossi, non so se milanese o cremonese, mostra in questo suo maladetto Quaresimale d’ esser uno de’ piú maladetti scrittori che voi v’abbiate mai pubblicati colle vostre stampe maladette. Gli è vero che i gesuiti vogliono a marciaforza far passare cotesta loro goffa Paternitá per una perla d’uomo, per una cima di letterato, per una quintessenza di predicatore; ma, Pasquali mio, lasciateli dire, ché ad ogni modo se ne mentono tutti quanti per centomila gole. Il padre Rossi non fu una perla, non fu una cima, non fu una quintessenza; ma e’ fu soltanto una Paternitá delle piú goffe che l’ordine gesuitico s’abbia avute mai. Voi mò, messer Giambattista, che foste sempre e siete e sarete un coso fatto alla peggio da colei che vi fu mamma, e che tanto pregiate il cattivo quanto il buono, sempre che v’apra la via alla speranza d’un guadagno di pochi baiocchi; voi, dico, vi lasciaste pur infinocchiare da que’ cialtroni della berretta quadra, e vi siete pur condotto, col mal prò che vi faccia, a render pubblica co’ vostri maladetti torchi la porcheria maladetta di questo maladetto Quaresimale: e non contento d’un peccataccio