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LETTERA CINQUANTUNESIMA

di Ambrogio Avignone al dottore Gianmaria Bicetti

[P reannunzia con grande gioia il suo ritorno a Milano.]

— Ticche tocche, deche tocche. — Chi è che picchia? — Apri l’uscio, Gianmaria, ch’io sono l’ Avignone, il tuo Ambrogio Avignone, sbarcato non ha un’ora in questa Genova, cioè giunto sano ed incolume sull’italico suolo dopo un’assenza di dieci anni. — Alleluia, alleluia! Non ti dico la festa che fa il mio cervello pensando come da qui a un poco sarò in Milano, dove rivedrò te e gli altri Bicetti e il Tanzi e don Francesco Carcano e il Balestrieri e il Fuentes e l’Agudio e i due Passeroni e il Parini e il Villa e i tanti altri amici da me lasciati costá son due lustri! È impossibile dirti la metá, il terzo, il settimo, il quindicesimo, anzi il centesimo, anzi il millesimo, del gaudio che m’inonda tutta quanta l’anima pensando come tutti v’allegrerete della mia tornata! Da una cittá d’ Aragona, chiamata Fraga, sono venuto sin qui in compagnia d’un musico milanese, che trovai a caso colá e venutosi da Madridde com’io. Egli parte di qui questa sera per la posta, e posdomane sará teco, e ti porrá in mano queste mie poche righe, e ti dirá a minuto come attraversammo insieme la Catalogna e un bel pezzo della Francia, e come c’imbarcammo sur una feluca sanremasca b) in Antibo, e il pericolo che abbiamo corso in una burrasca nelle vicinanze di Nizza, e come finalmente siamo giunti qui a dispetto de’ venti avversi, da’ quali ne fu fatta piú d’una brutta paura. Malgrado l’impazienza che mi mangia di rivedere te, il tuo Milano e le tante e tante bell’anime che si chiude in grembo, io non posso partire stassera col musico, richiedendo le mie (i) Cioè una feluca di Sanremo, terra nel Genovesato cosi chiamata.