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LETTERA TRENTACINQUESIMA

di Felice Giardini a Stefano Storace

[Anche nelle latitudini britanniche si può fare buona seta: non tanta, per altro, da poterne stabilir commercio.] Voi v’ingannate a partito quando affermate che non si può fare della seta in una latitudine qual è quella dell’Inghilterra. Io, che ho passati degli anni parecchi in quell’isola, vi posso assicurare, come testimonio di vista, che se ne può fare e che se ne fa ogni anno da molte signore per loro passatempo, non solo nelle loro dimore villerecce, ma perfino nella stessa cittá di Londra. Vi voglio anzi dire come un giovane viniziano, chiamato Giambattista Pasquali, musico e violinista di mestiero e uomo di molto buon ingegno in varie cose, tentò nel 1748 un’ intrapresa in fatto di seta, che, se gli fosse andata bene, sallo Dio che discapito avrebbe recato all’Italia. L’intrapresa fu che appigionò un bel pezzo di terreno in un luoghicciuolo detto Brompton, distante a malapena due miglia da Londra, e trapiantò in quello quattrocento e quaranta gelsi neri, da lui comprati dal celebre cavaliero Hans Sloane. Fatto quel piantamento, il Pasquali fabbricò nel centro del suo terreno una camera lunga quaranta piedi inglesi, larga ventuno ed alta sedici, rischiarata da mezzogiorno con sei finestre invetriate, e fornita intorno intorno de’ tavolati e degli scaffali necessari a porvi poi i bachi. Non occorre dire com’egli impegnò degli uomini perché gli ricogliessero la foglia, insieme con un bastevole numero di femmine che badassero a nutrire e a tener netti quelli stessi bachi, di cui avevasi fatto venir d’ Italia quanta semente gli occorreva. Quell’anno primo della sua intrapresa i suoi gelsi non produssero troppa foglia, perché avevano sofferto assai nel trapianto da Chelsea a Brompton; la qual cosa lo costrinse con