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LETTERA VENTIQUATTRESIMA

dell’abate Felice Belgrano

AL MARCHESE FaVRE DI CaVAGLIÀ [L’uomo saggio non fantastica di felicitá, ma lascia andare il mondo a posta sua.] Lo credo anch’io, signor marchese, che non siete soverchio felice, ancorché molti donzellacci vi frodano la grazia d’ invidiarvi come tale. Per esserlo, e’ v’abbisognava non nascer un uomo, ma piuttosto un gatto; ché, con acchiapparvi un sorcio nella cantina o un passero in sul tetto, vi sareste trovato felicissimo, almeno di tempo in tempo; e non acchiappando né sorci né passeri, avreste né piú né meno vivuta tutta la vita miagolando le notti, dormendo i giorni, impanciando e digerendo a vostro bell’agio talora un buon pezzo di milza e talora un bello squarcio di trippa, donatovi albore debite dalla vostra amorevole padrona, senz’ambizione veruna, senza desidèri violenti, trattone quello di propagare la progenie gattesca, e senza quelle tant’altre passioni, che malmenano e bistrattano e scombussolano ed empiono d’affanno i pari vostri. Per farvi felice vi vuol altro, marchese riverito, che quel vostro palagio con tanti appartamenti adobbati di seta e d’oro, che quella vostra stalla piena di cavalli tutti d’un colore, che que’ vostri tanti servi in livrea e senza livrea, e che que’ vostri dobloni tanti tantissimi! Il papa, che s’ha di molti piú palagi che non Vostra Signoria illustrissima, e piú cavalli e piú servi e piú dobloni che non voi; anzi il re, che ha il doppio e il triplo d’ogni cosa piú che non ha il papa, ben potrebbono, volendolo, render Caio infelice e Sempronio infelicissimo piú che noi sono secondo il corso della natura; imperciocché l’aggiungere infelicitá ad altrui è cosa facilissima quando s’ ha il potere in mano. Ma che il papa o che il re possano rendere veruno felice, cappe (che quasi l’ho detta colle zete) se la cavino del capo! Volete piú, che non possono far felici se medesimi! Oh, ella è pur cosi com’io la