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epistolario 7

posso trovar a ridire a un verso solo. Corpo di me, venite presto, ché v’ imparadiserete, affé’ di me, corpo di me, ché vuo’ dirlo mille volte. Ma cappe! la lettera si avanza di molto, ed io non ho ancora parlato del Baretti ; orsù, vi contenterete di dar di mano a quest’altro foglio, ché vuo’ parlarvi de’ fatti nostri anco una bricia, e, se mi vien destro, vuo’ ficcarvi qualche verso, ché tanta prosa poi è un vituperio; ma prima diciamo un’altra cosa, ma, com’io diceva, pigliate quest’altro foglio, ché questo è finito affatto.

Io vorre’, dottor mio, che mi feste un piacere. Due, Baretti. No, no, basta uno. Vorre’ che mi riveriste umilmente quel padre lettore del Giardino, di cui non sovviemmi più il nome; basta, quel tal padre, che io vi dissi esser amico del Grazioli e che voi diceste di conoscere, perché è venuto risedere costi; vorre’ dunque che me gli feste tanto servitore, e che nello stesso tempo il pregaste a darvi copia del capitolo sopra la mosca del Grazioli, che egli ha, che pregovi far copiare da qualcuno e di mandarmelo subito, ché vuo’ rimandarlo al Grazioli, che non l’ha più, e vuo’ che gli faccia qualche mutazione: ergo lo vuo’ nella mia Raccolta; caro voi, fatemi questo piacere, ma pigliamo un’altra penna, ché questa scrive male. Veniamo a noi.

Io in questi giorni ho fatto tanti versi, che è uno spavento, un flagello; e prima che la carta mi manchi tra le mani, sentite due sonetti, e non più.


Risposta a un rancido sonetto di Benedetto Bardi

di Torino.


     Un anno è ormai, ch’io vidi, o Bardi mio,
tre tuo’ sonetti, ch’ora non ho in mente,
sopra un tal micio, che in l’atto merlo,
che appiccava l’uncino egregiamente.
     Tu li mandasti al Balestrieri, ch’io,
come se fosse adesso, l’ho presente,
ma se te l’ho a dir, per Dio, per Dio,
e’ non valean niente, niente, niente.