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IX.

SUL “RING„ DELLA MORTE


L

e fosche giornate conseguenti a Caporetto, se pur recenti sembrano, a fine del 1917 — lontane, dileguate con gli incubi e le trepidazioni nate da esse.

L’esercito si riprende dall’immeritata sfortuna subita; sugli Altipiani, nella regione del Grappa, fra Brenta e Piave, sul fiume dal ponte della Priula a Cortellazzo i soldati tengono duro, si fanno ammazzare ma non cedono.

Le loro gesta strappano — a chi non li conosceva e a quelli che avevano dubitato — grida di meraviglia.

L’Italia è tutto un cuore solo che arde.

Arde di passione pe’ suoi figli che si battono in disperate condizioni di inferiorità, ma più ancora è accesa dai ferrei propositi di resistere, resistere sino alla fine, sino a che la vittoria immancabile saluti alfine i morti dell’Isonzo, del Carso e delle Alpi non invano sacrificatisi.

Ognuno di noi è un giuramento che vive.

Ma più degni, più grandi, più sublimi quelli che giurano, ed operano, stando nella fornace delle battaglie sanguinose.

Baracca è fra questi, e — ripeto — non per amore d’argomento o pietà verso l’amico scomparso ma perchè la verità è una, e quella dev’esser detta e tutta si deve dire perchè nell’ora della pace e della tranquillità ritornate non si dimentichi chi con sacrificio e costanza preparò la vittoria, ancora una volta egli è esempio di virtù militari, di che lo fanno una figura e un tipo a sè, eminentemente personale e

originale, fuori — o al disopra anche di quella pur eletta schiera i di soldati e di capi che maggiormente si esaltarono nel corso della È Grande Guerra. |